Le tecniche per produrre la birra: il dry hopping tra tradizione e innovazione
Approfondiamo una delle tecniche più affascinanti della produzione birraria moderna
Le tecniche per produrre la birra: negli ultimi anni i mastri birrai di tutto il mondo grazie alle recenti innovazioni tecnologiche, hanno messo a punto diverse nuove metodologie di produzione che hanno reso possibile una scelta sempre più accurata delle materie prime di alta qualità e la creazione di un numero di birre in costante crescita con cui stupire gli appassionati della bevanda e i neofiti.
Modalità di lavoro rivoluzionarie che però non hanno mandato in soffitta quelle tradizionali (nate soprattutto fra la fine dell’800 e la prima metà del secolo scorso) come il ‘dry hopping’ che, ad esempio, sta rivestendo un ruolo di grande importanza nel rilanciare la reputazione di uno stile classico e conosciuto in tutto il mondo quale il Pils inventato in Boemia nel 1836.
Ma cosa si intende con ‘Dry hopping’? Si tratta di un termine tecnico che in passato era conosciuto praticamente solo ai produttori: oggi però viviamo nell’epoca del trionfo del luppolo e non è raro trovare appassionati di Ipa (birra che abbonda di questo ingrediente) parlarne con disinvoltura al bancone di un pub, magari ignari del processo produttivo nella sua completezza ma consapevoli dell’importanza di questa tecnica per la produzione del loro stile preferito.
La conoscenza di questo procedimento ha infatti superato i confini dei dialoghi tra addetti ai lavori per diventare un’espressione indirizzata verso un consumatore esperto nonché uno strumento di marketing: non è raro infatti trovare bottiglie sulle quali il produttore ha deciso di mettere in evidenza nell’etichetta, fra le tante caratteristiche della sua birra, l’impiego del ‘dry hopping’.
Luppolatura a freddo: cosa significa davvero
Il termine, letteralmente, andrebbe tradotto con ‘luppolatura a secco’, ma è una definizione inesatta nella nostra lingua, tanto che, a ragione, fa storcere il naso a molti esperti: come può infatti un luppolo lavorare ‘a secco’ se, in un modo o nell’altro, deve entrare in contatto con il mosto? Si deve quindi parlare di ‘luppolatura a freddo’: la procedura è semplice e consiste nell’aggiungere dell’altro luppolo durante la fase finale della fermentazione della birra.
Un procedimento il cui obiettivo è quello di apportare delle ulteriori note amare al prodotto finale: una qualità questa che contraddistingue ad esempio le Ipa americane, oggigiorno apprezzate in tutto il mondo. E’ corretto definirla ‘luppolatura a freddo’ dato che viene effettuata non con il mosto bollente, ma ad una temperatura molto più bassa, ovvero quando i componenti chimici presenti nelle infiorescenze non possono più trasformarsi.
La motivazione per cui si effettua questa operazione è semplice: aggiungere un ulteriore livello di complessità alla luppolatura andando a cogliere altri aromi naturalmente amari del luppolo, ma ha ragioni non banali da approfondire.
Durante la bollitura infatti i composti chimici presenti nel luppolo si possono ricombinare dando vita a dei profili aromatici differenti rispetto a quelli di partenza: questo cambiamento non è particolarmente deciso (un luppolo di qualità Saaz non potrà mai avere le medesime fragranze del Cascade), ma è avvertibile nelle diverse sfumature della parte erbacea, floreale, speziata e agrumata al momento della degustazione della birra.
Origini britanniche e consacrazione americana
Il dry hopping è nato in terra britannica dove i produttori, già agli inizi del ‘900, erano soliti aggiungere una piccola quantità di luppolo nei fusti destinati ai pub per aumentare la freschezza della bevanda al momento della spillatura e la sua capacità di preservarsi qualitativamente per un arco temporale maggiore.
La tecnica acquista particolare importanza quando si vuole esaltare la componente luppolata rispetto a quella maltata: il risultato da ottenere infatti è quello di coprire quasi del tutto le altre sfumature aromatiche date dal malto e anche i potenziali difetti della bevanda. Questa, un tempo, era una aggiunta che veniva fatta saltuariamente e solo in tempi più recenti è diventata una caratteristica produttiva basilare di alcuni stili birrari: lo si deve, come molti altri fenomeni della contemporaneità birraria, agli americani che con le loro reinterpretazioni iperluppolate degli stili tradizionali britannici (American Pale Ale e India Pale Ale) hanno portato alla celebrità questo espediente produttivo.
Tecniche applicative: dai fermentatori ai sistemi esterni
I modi in cui si effettua il dry hopping sono diversi: gettando direttamente il luppolo nel fermentatore oppure utilizzando un peso che lo trascina verso il fondo oppure installando dei contenitori esterni al fermentatore in cui viene forzato il ricircolo del mosto. La tecnica oggi è conosciuta in tutto il mondo e viene applicata a numerosi stili birrari non solo anglosassoni, come ad esempio le Belgian Blond Ale moderne che spingono molto sui toni del luppolo senza però intaccare il profilo aromatico speziato e fruttato della ricetta tradizionale.
Italian Pils: innovazione locale con il dry hopping
Un’altra applicazione recente del dry hopping la troviamo nella Italian Pils, ovvero la reinterpretazione che propongono i birrifici nostrani della più famosa birra a bassa fermentazione del mondo: questo stile birrario tradizionalmente infatti non prevede l’impiego di tale tecnica produttiva, ancora oggi peraltro molto poco impiegata nei Paesi dell’Europa centro-orientale dove è nata la tipologia birraria in questione.
In Italia invece i produttori spesso ricorrono ad un moderato dry hopping a base di luppoli europei di alta qualità per incrementare l’apporto erbaceo: un’operazione che, a volte, ha portato a dei risultati davvero eccellenti, come dimostrano anche i premi ottenuti a livello internazionale dai birrifici italiani che impiegano questa tecnica per donare alle loro birre degli aromi ancora più intensi.
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