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Giro del mondo in birra: Namibia

Seconda tappa consecutiva in Africa per il viaggio alla scoperta dei prodotti brassicoli realizzati in ogni angolo del pianeta.

Dopo la tappa in Mozambico, dove vi sono due birrifici industriali e dove si produce la birra tradizionale conosciuta come ‘ponge’, il viaggio infatti approda in Namibia: un altro territorio nel quale si trova conferma del grande fascino di questo continente anche dal punto di vista brassicolo.

Se, come abbiamo avuto modo di sottolineare in diverse occasioni, la birra ha sempre rivestito un ruolo importante nella storia dell’uomo, in questo Paese, nel ‘900, ha assunto una veste dirimente come marcatore sociale: in quello che infatti, fino al 1990, è stato uno sconfinato territorio appartenente al Sud Africa, venne utilizzata come strumento politico per mettere in atto le leggi di segregazione razziale conosciute come “apartheid” rimaste in vigore dal 1948 al 1991.

Un libro molto interessante al riguardo, è stato scritto dallo storico sudafricano Tycho Van Der Hoog: il volume (di cui è disponibile un riassunto esaustivo, a cura del medesimo autore, sul quotidiano on-line ‘The Namibian’) s’intitola ‘Breweries, Politics and Identity: The History Behind Namibian Beer’, ovvero ‘Birrerie, politica e identità: la storia dietro alla birra namibiana’.

I vari Governi che si sono succeduti alla guida del Sud Africa applicando le leggi razziali anche sul popolo namibiano, come racconta lo scrittore, infatti hanno sempre mostrato un grande interesse per la bevanda, non solo per le entrate fiscali a beneficio dello Stato, ma anche per il fatto che tutti la consumavano: divenne quindi uno strumento politico che portò al divieto di consumo per i nativi.

Una legge che, fin da subito, sarebbe risultata molto difficile da far rispettare dato che anche i namibiani, come quasi tutti i popoli dell’Africa, avevano un’antica e consolidata tradizione nella produzione domestica della bevanda: questo portò all’adozione di forti misure di repressione da parte delle autorità.

Basti pensare infatti che, negli anni ‘50, nella capitale Windhoek, il 60% dei reati era legato alla produzione, alla vendita e al contrabbando di birra e altri alcolici: la polizia, per questo motivo, distrusse diversi siti produttivi domestici.

Nello stesso periodo, come ‘compensazione’, furono aperti alcuni locali nei quali gli indigeni potevano bere birra annacquata.

Nel 1969 la legge razzista sugli alcolici venne abrogata e questo diede inizio alla crescita del settore brassicolo namibiano: a questo, come racconta Van Der Hoog, contribuì, poco tempo dopo, anche lo scoppio della guerra civile nella confinante Angola (a fasi alterne sarebbe durata dal 1975 al 2002) dato che, fino ad allora, i commercianti del nord della Namibia erano soliti contrabbandare birra con questo Paese.

Quando lì iniziò il conflitto, questo commercio s’interruppe e diede la possibilità al più antico birrificio namibiano ancora in attività, il ‘South West Breweries’, di accrescere in maniera sempre più consistente i propri profitti fino ad arrivare, oggi, ad essere una delle realtà produttive più importanti del Paese e ad esportare i propri prodotti in oltre venti Paesi.

Attualmente conosciuto come ‘Namibia Breweries Limited’ (NBL), è stato fondato da due coloni ed imprenditori tedeschi, Carl List e Hermann Ohlthaver, nel 1920: la Namibia infatti, dal 1884 al 1919, è stata una colonia dell’Impero tedesco.

Questo, ancora oggi, incide sulle modalità di produzione della birra dato che tutte quelle ivi realizzate (tranne una, la king lager) seguono fedelmente le regole fissate dal Reinheitsgebot, ovvero il celebre editto sulla purezza della bevanda emanato in Baviera nel 1516.

La referenza della casa maggiormente apprezzata, secondo il portale ‘Rate beer’, è la Hansa Urbock: si tratta di una dunkel bock di colore marrone con sfumature rossastre ed una gradazione alcolica del 7%. Viene prodotta una sola volta all’anno (in maggio ed in edizione limitata) secondo il più rigoroso stile tradizionale delle maibock tedesche.

Accennavamo alla king lager, l’unica la cui ricetta non prevede l’osservazione delle norme previste dall’’editto della purezza’: si tratta di una birra di colore giallo dorato limpido prodotta con orzo namibiano;presenta un aroma dolce e cremoso con note di cereali, grano tostato e spezie.

Non solo birra industriale: anche in Namibia infatti ha iniziato a muovere i primi passi la ‘craft beer revolution’, merito dell’unico birrificio artigianale presente nel Paese: si tratta del Camelthorn situato nella capitale Windhoek dalla quale prende il nome la lager della casa che presenta una gradazione alcolica del 4% e un profilo aromatico che mette in risalto note di mais e malto.

I Namibiani però, come dimostrano diversi documenti, producono la bevanda da secoli, specificatamente le birre tradizionali che qui sono a base di miele o di zucchero.

Le ricette mettono in mostra la grande inventiva dei mastri birrai domestici locali dato che prevedono anche l’impiego di un ampissimo ventaglio di ingredienti: dalle patate alla corteccia frantumata di alcune tipologie di alberi, dalla farina di mais ai piselli e molti altri.

Una vivace cultura dei prodotti brassicoli artigianali portata avanti con passione sia in Namibia che, come visto in diverse occasioni, nel resto dell’Africa.

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Nicola Prati
Nicola Prati
Classe 1981. Subito dopo la maturità classica, inizia a collaborare con la ‘Gazzetta di Parma’ (2000): una collaborazione giornalistica che durerà otto anni. Contemporaneamente, dal 2005 al 2008, fa parte dell’ufficio stampa del Gran Rugby Parma. Successivamente, fra le altre esperienze lavorative, quella nell’ufficio comunicazione interna di Cariparma Credit Agricole e nella direzione relazioni esterne del gruppo Barilla. Le sue due più grandi passioni sono tutti gli sport e la musica. A queste, si aggiungono la lettura, i viaggi e la cucina. Collabora con ApeTime da gennaio 2021.

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