L’ultimo arrivato nella grande famiglia dei presidi Slow food è il cappero di Selargius.
La storia della sua origine, o meglio della sua conservazione e del suo approdare a presidio Slow food, è come sempre molto interessante: Marco Maxia, quarantottenne, oggi referente dei produttori del presidio, in gioventù si trasferì e trovò lavoro per un periodo a Londra; successivamente però, sentendo la distanza della sua terra, rientrò in Sardegna.
Senza ancora una occupazione, girando nelle campagne di Cagliari “senza soldi e senza terreno” fu colpito dai verdi cespugli di capperi che, nonostante l’abbandono, si mostravano sempre in splendido vigore; da lì nacque l’idea di recuperare quella antica varietà tradizionale che si distingue per produrre capperi molto “più vuoti” e più piccoli di quelli che oggi vanno per la maggiore in commercio e sono di origine Nord africana.
Il fatto che quelli di Selargius siano meno della metà della dimensione e del peso rispetto a quelli più comuni, se da un lato rende più difficile la raccolta e la realizzazione di quantitativi, dall’altro facilita la lavorazione, dal momento che è già naturalmente disidratato.
La pianta del cappero di Selargius, a differenza dei capperi tradizionali, si sviluppa in forma di piccoli alberelli alti fino a un metro e mezzo. Oggi Marco ha 600 piante in terreni che ha in gestione o in affitto e insieme a un altro produttore, Enrico Dentoni, porta avanti questa splendida realtà agricola ai margini della ottava città della Sardegna.
“Un tempo avere qualche cespuglio di capperi, nel vigneto o tra gli ulivi, era la normalità – dice Fabrizio Mascia di Slow Food Cagliari – se all’inizio dell’Ottocento della pianta si conoscevano gli usi medicamentosi, ben presto si sono scoperte anche le potenzialità in cucina. Guai a perderle un’altra volta! Come Slow Food Cagliari ci siamo attivati per avviare il Presidio, convinti che sia importante adoperarsi in prima persona per conservare la biodiversità del nostro territorio. Aiutare i coltivatori di cappero di Selargius vuol dire conservare una cultura, la bellezza di un paesaggio agrario unico, supportare un’agricoltura sostenibile anche contro tutte le speculazioni sul territorio agricolo”.




