Dopo la doppia tappa nel nostro Paese, il tour alla scoperta dei prodotti brassicoli
realizzati nel mondo riparte dal Kenya e dall’Africa, continente destinato a ricoprire un ruolo sempre più centrale nel mercato mondiale dell’antica bevanda: secondo gli esperti del settore infatti qui, entro il 2025, sarà prodotto il 37% del volume mondiale di birra.
Quindi, parliamo di birra del Kenya. Per la precisione, di quella che tutt’oggi è la bevanda a base di malto e luppolo più diffusa nell’ex colonia inglese (e birra pluripremiata a livello internazionale), la lager Tusker; ne parlato in uno dei suoi innumerevoli manoscritti il celebre scrittore e giornalista americano, premio Nobel per la letteratura, Ernest Hemingway.
L’amore per l’avventura e un’irrequietezza mai domata, lo hanno spinto per tutta la
vita a viaggiare in ogni angolo del mondo, alla ricerca di nuove esperienze e di nuove
realtà da raccontare nei suoi reportage giornalistici o nelle sue numerose opere fra
cui celebri romanzi.
L’Africa, ed il suo fascino, non potevano non attirare questo spirito errante: era l’8
dicembre del 1933 quando Hemingway giungeva per la prima volta in Kenya, a
Mombasa, per partecipare a un safari. Anche in quell’occasione, dalla vita vissuta
alla parola scritta, il passo è stato breve e dalla fertile penna dello scrittore sono
usciti due racconti ed un romanzo autobiografico, Verdi Colline d’Africa: in
quest’ultimo libro, strutturato come un diario narrativo, Hemingway cita più volte la
birra come il rimedio prediletto contro il sole africano e le fatiche della caccia.
La sua birra era appunto la Lager Tusker, prodotta tutt’oggi dalla Kenya Breweries
fondata nel 1922 dai fratelli George e Charles Hurst. Un anno dopo la fondazione,
George venne ucciso da un elefante durante una spedizione nella savana e, in
ricordo di questo evento, la birra fu chiamata Tusker, “elefante” in lingua swahili, e
la figura di questo imponente mammifero da allora è impressa sull’etichetta delle
bottiglie.
La lager Tusker è realizzata esclusivamente con ingredienti locali: l’orzo è coltivato
nella Rift Valley, nell’entroterra del paese, mentre l’acqua proviene dalle Aberdare
Mountains che si trovano a nord-ovest di Nairobi. Completano la ricetta luppolo,
amido di mais e piccole quantità di zucchero, anch’essi prodotti rigorosamente in
Kenya. La birra che ne risulta ha un contenuto alcolico del 4,2%, è di colore giallo
pallido e si presenta con una schiuma ricca e cremosa.
Perfetta e dissetante in ogni momento della giornata, questa birra a bassa
fermentazione è ideale per l’aperitivo o in abbinamento con i piatti tipici del Kenya
come l’irio, una zuppa di fagioli, mais e patate, il matoke, una purea di banane verdi,
e il kuku wakupata, il pollo alla marinara, una specialità dell’isola di Lamu.
Molto amata in patria, di birra Tusker ne vengono venduti oltre 700mila ettolitri
all’anno, destinati non solo al mercato interno, ma anche a quello internazionale,
americano e giapponese in testa. Attualmente il marchio è di proprietà della Diageo,
impresa leader nel mercato mondiale delle birre, del vino e dei distilati.
In Kenya però, come negli altri Paesi dell’Africa di cui abbiamo avuto modo di
parlare, la birra è anche una bevanda tradizionale, preparata nelle abitazioni, che
riveste un ruolo centrale nella cultura e nelle tradizioni dei diversi gruppi etnici:
ricordiamo, fra le altre, il chakalow ed il tchapalo.
Qui viene chiamata bututia e la sua preparazione inizia con il setacciare il miglio per
rimuovere la terra e altre possibili scorie: il miglio, successivamente, viene macinato
con delle macine di pietra e, in seguito, viene mescolato con l’acqua. Questa mistura
è lasciata fermentare per 3 giorni, alla fine dei quali si ottiene un prodotto che, in
alcune zone del paese, è chiamato anche kimera.
Successivamente, viene lasciato asciugare al sole per tre giorni: una prassi che
ricorda, almeno in parte, il processo di maltatura industriale. Una volta asciutto, il
miglio viene riposto in una pentola (chiamata canari) con un composto liquido e
cotto per sei, otto ore.
A questo punto la bevanda viene diluita in acqua calda e filtrata per avere un
prodotto finale omogeneo, la bututia appunto, che è conservata in un posto fresco e
asciutto per preservarne la freschezza. La bevanda viene poi consumata utilizzando
delle cannucce di foglie di banana chiamate mbari.
Non si conserva a lungo, motivo per cui viene prodotto, distribuito e consumato
nell’ambito delle diverse comunità locali: una bevanda tradizionale la cui
sopravvivenza, nei Paesi dell’Africa economicamente più sviluppati, è messa in
pericolo dalle birre industriali locali ed importate.
Dal Kenya arriva quindi un’altra prova di come la birra abbia sempre rivestito un
ruolo centrale nelle plurisecolari storia e cultura dell’umanità: in questo caso addirittura decantata in uno dei romanzi autobiografici di uno degli autori più
influenti della letteratura moderna come Hemingway.
Classe 1981. Subito dopo la maturità classica, inizia a collaborare con la ‘Gazzetta di Parma’ (2000): una collaborazione giornalistica che durerà otto anni. Contemporaneamente, dal 2005 al 2008, fa parte dell’ufficio stampa del Gran Rugby Parma. Successivamente, fra le altre esperienze lavorative, quella nell’ufficio comunicazione interna di Cariparma Credit Agricole e nella direzione relazioni esterne del gruppo Barilla. Le sue due più grandi passioni sono tutti gli sport e la musica. A queste, si aggiungono la lettura, i viaggi e la cucina. Collabora con ApeTime da gennaio 2021.