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La peste suina avanza: la posizione di Slow food

La peste suina avanza (della scorsa settimana la notizia dell’8° caso in provincia di Pavia in un grande allevamento da ingrasso), e Slow food torna a prendere posizione contro quella che ritiene una gestione fallimentare dell’emergenza, frutto di un modello di allevamento dei maiali sbagliato: quello dei grandi numeri.

Sono passati due anni e mezzo dal primo caso riscontrato in Italia (Alessandria) e il virus continua ad espandersi, nonostante le misure prese e gli abbattimenti di cinghiali a tappeto. Il danno è sempre più grande (se si pensa che già 150.000 maiali sono stati abbattuti) e ormai difficilmente arginabile come forse dimostra anche il fatto che nelle scorse settimane si è dimesso il commissario straordinario all’emergenza Vincenzo Caputo.

Slow food in un recente comunicato punta il dito soprattutto sul fatto che è mancata la vigilanza tra i vari allevamenti, le misure cautelative principali andrebbero incremoentate proprio per i grandi allevamenti, che sono quelli che più facilmente trasportano capi da una sede all’altra, o ricevono fornitori che girano tante sedi; solo considerando queste dinamiche si spiega come la peste suina, saltando varie regioni, sia riuscita ad arrivare fino a un allevamento di Reggio Calabria.

“Sotto il profilo della biosicurezza – si legge in una nota da Slow food – non si può sorvolare sul fatto che i casi di peste suina africana si sono verificati negli allevamenti industriali, ovvero in quelli che – sulla carta – dovrebbero essere i luoghi maggiormente al riparo dal contagio, nei quali gli animali vivono rinchiusi, senza possibilità di contatti diretti con i cinghiali. Questa apparente contraddizione si spiega con la movimentazione di mezzi, animali e personale tra un allevamento e l’altro, una circostanza che riguarda soprattutto i grandi allevamenti con migliaia di capi. In altre parole: è l’uomo ad aver portato il virus negli allevamenti. Tenerlo a mente è fondamentale per evitare di peggiorare la situazione”.

La beffa è che le problematiche che si riscontrano nei grandi allevamenti rischiano di far approvare poi normative che danneggiano i piccoli allevatori, e sono proprio quelli che Slow food intende difendere, cosa che ha fatto con alcune richieste che per ora non hanno avuto risposta. Tra le richieste dell’associazione della chiocciola, più azioni di informazione e formazione alla popolazione e agli addetti ai lavori, risarcimenti più equi per tutti gli allevatori (anche i piccoli e biologici), e macelli di piccole dimensioni e più diffusi sul territorio che consentirebbero di avere meno contatti tra animali provenienti da zone molto diverse.

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Redazione ApeTime
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