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Le bevande tradizionali della Bolivia

Dopo una sosta di due settimane (durante la quale abbiamo avuto modo di provare la qualità della produzione birraria islandese della quale parlammo a suo tempo nella rubrica ‘Giro del mondo in birra’) riparte il viaggio alla scoperta dei prodotti tradizionali realizzati in ogni angolo del pianeta.

L’ultima tappa era stata in Birmania, dove, da secoli, si realizza un infuso che viene ottenuto mediante l’impiego di un’erba conosciuta con il nome di ‘laphet hmwe’: la bevanda viene preparata mescolando queste foglie con quelle del tè fermentate e, a preparazione conclusa, presenta un aroma assai deciso e speziato.

Questo Paese, inoltre, come molti di quest’area dell’Asia, vanta una tradizione plurisecolare in fatto di prodotti fermentati a base di cereali: riso, miglio e sorgo sono quelli più utilizzati e talvolta sono così importanti da costituire il traino dell’economia di intere regioni.

Il tour, questa settimana, cambia continente e torna in America Latina per approdare in Bolivia: il territorio è abitato da circa 20.000 anni e la cultura più importante sviluppatasi qui è stata quella dei Tiahuanaco che vivevano intorno al lago Titicaca. In seguito, sarebbe sorto l’Impero Inca, cancellato dal conquistatore spagnolo Francisco Pizarro durante il XVI secolo.

Per quanto riguarda le bevande tradizionali realizzate in questo territorio, queste sono assai numerose: fra di esse troviamo l’ ‘Api’, termine che, in lingua ‘quechua’, indica un prodotto ottenuto dalla fermentazione dei grani di mais viola, un cereale tipico delle regioni andine.

mais viola

La preparazione prevede che il mais venga immerso in acqua calda, addizionato di zucchero e bucce di agrumi e lasciato  fermentare per alcuni giorni: in seguito, viene filtrato e bollito per circa 20 minuti con un’aggiunta di spezie quali chiodi di garofano e cannella.

Viene consumato durante le più importanti ricorrenze religiose specie nell’area della capitale La Paz: la sua origine, secondo gli storici, risalirebbe al periodo dell’Impero Inca. La ricetta ha però subito delle importanti modifiche durante il dominio spagnolo: i colonizzatori, infatti, introdussero l’utilizzo della canna da zucchero facendola diventare a tutti gli effetti una bevanda dolce.

‘Api’ che certamente riveste un ruolo di grande importanza nella cultura boliviana, ma non allo stesso modo delle antenate delle moderne birre,  profondamente radicate nel tessuto sociale locale: queste fanno infatti parte di tutti i rituali tradizionali, del folklore popolare e della vita quotidiana.

Quella maggiormente apprezzata è conosciuta con il nome di  ‘chicha de jora’ (si pronuncia ‘cicia’), ovvero la birra di mais maltato: densa, torbida e acidula, con una schiuma densa in superficie, si contraddistingue anche per la bassa gradazione alcolica (3%).

Il colore varia dal rosso scuro al giallo chiaro a seconda della qualità del granoturco utilizzato nella preparazione e dai diversi dosaggi delle spezie: questi infatti variano da zona a zona. Si tratta di una bevanda molto rinfrescante, che anticamente veniva preparata partendo dal mais masticato: grazie agli enzimi della saliva, infatti, era già pronta per la fermentazione.

bevanda Bolivia

Ancora oggi viene realizzata quasi esclusivamente nelle abitazioni dove la ricetta si tramanda di generazione in generazione. La preparazione dura cinque giorni: il primo passaggio prevede la cottura del mais, un procedimento che viene ripetuto Il giorno successivo per dissolvere gli eventuali grumi ancora presenti nel liquido.

Il composto viene quindi riposto in contenitori di terracotta: dopo due giorni la chicha, ben fermentata, si trasforma così in una bevanda corposa. La presentazione ai commensali, tradizionalmente, viene fatta in recipienti ornamentali fabbricati con zucche secche dipinte e intagliate denominate rispettivamente ‘potos’ o ‘cojuditos’ a seconda della loro dimensione.

Esiste anche un’altra versione della bevanda, altrettanto antica e importante nell’alimentazione della popolazione, ovvero la ‘chica molli’, particolarmente diffusa negli altipiani andini boliviani: si tratta di un’antenata delle moderne birre la cui ricetta, oltre al mais, prevede l’utilizzo delle bacche di pepe rosa che sono il frutto di una tipologia di albero originaria del sudamerica, il ‘molle’.

Conosciuta anche come ‘mulli acqua’, viene preparata lasciando in ammollo i frutti per una notte intera affinché l’acqua assorba tutti gli zuccheri. Il giorno successivo, il liquido viene colato e poi fatto bollire per diverse ore e la sostanza che si ottiene prende il nome di ‘mulli upi’ ed è riposta a fermentare in contenitori di argilla che hanno un nome diverso a seconda dell’ampiezza: in ordine crescente puyñus, urpus e maqmas.

Solitamente si aggiunge il quinchu, ovvero il residuo di altre fermentazioni principalmente a base di cereali ed erbe andine: a volte però questa aggiunta non è necessaria dato che la sostanza rimane sulle pareti dei vasi già utilizzati per il processo fermentativo.

Le due versioni della bevanda oggi vengono consumate soprattutto in occasione delle feste patronali locali, dei matrimoni e dei compleanni: nonostante questo restano comunque dei prodotti di largo uso quotidiano e di centrale importanza nella cultura boliviana.

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Nicola Prati
Nicola Prati
Classe 1981. Subito dopo la maturità classica, inizia a collaborare con la ‘Gazzetta di Parma’ (2000): una collaborazione giornalistica che durerà otto anni. Contemporaneamente, dal 2005 al 2008, fa parte dell’ufficio stampa del Gran Rugby Parma. Successivamente, fra le altre esperienze lavorative, quella nell’ufficio comunicazione interna di Cariparma Credit Agricole e nella direzione relazioni esterne del gruppo Barilla. Le sue due più grandi passioni sono tutti gli sport e la musica. A queste, si aggiungono la lettura, i viaggi e la cucina. Collabora con ApeTime da gennaio 2021.

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