Era il 2005 quando, per la prima volta, si accendevano i riflettori sulla mixology molecolare. Dopo 15 anni, ecco lo scenario
Mixology molecolare è sinonimo di cocktail a base di spume, realizzati con trasformazione di liquidi in gel, o polveri, o sfruttando fat washing e carbonatazione. Merito di Philip Duff, ideatore e organizzatore di un summit sul tema di due giorni a Parigi
Nel mondo del bere miscelato oggi, a torto o a ragione, la mixology molecolare è probabilmente la più derisa delle tendenze degli ultimi 20 anni. Ma ha segnato un punto di svolta. E ha diversi meriti. Ve li spieghiamo qui.
Premessa
Un passo indietro, giusto per fare un po’ di chiarezza.
Ad accendere a livello internazionale l’attenzione sul movimento molecolare furono in primis Tony Conigliaro, Wayne Collins, Eben Klemm, Audrey Sydney e Colin Field, che nell’ottobre del 2005 furono invitati da Philip Duff al summit sul tema organizzato a Parigi patrocinato dalla Bols. Certo, non furono i soli a portare la scienza dietro a bancone. In Italia, all’epoca, era già noto per esempio Dario Comini, titolare del Nottingham Forrest di Milano.
L’evoluzione
La moda della mixology molecolare non durò a lungo. Ma finché durò, fu sfolgorante.
A distanza di qualche anno, restano solo i locali di qualità basati interamente su questo concept (come il Nottingham Forrest di Milano) e qualche drink “singolo” nei menù (un caso su tutti, in Italia: li troviamo al Maracaibo di Alghero).
Il bilancio
“Il movimento ha lasciato di certo un’eredità positiva. La mixology molecolare ha attirato molti più giovani nel mondo dei drink, ha ampliato la consapevolezza del pubblico su che cosa sia la cultura del bere miscelato e incrementato il prestigio dei barman.
Tuttavia, anche se molti di questi cocktail erano e sono ottimi, molti altri erano e sono basati solo sulla tecnica. Per questo non arrivano al cuore dei clienti” osserva Robert Simonson nel testo Un drink come si deve (Readrink).
Ecco, noi siamo d’accordo con lui.