Nuova tappa per il tour che si sposta dai Caraibi all’estremo oriente per approdare in Giappone.
Paese che, da un certo punto di vista, per quanto riguarda storia e produzione brassicola, si colloca (facendo una forzatura narrativa) a metà strada fra Germania e Giamaica.
Il Giappone infatti, come il Paese caraibico, non vanta una tradizione plurisecolare come quella teutonica, essendosi il settore birrario sviluppato solo a partire dalla seconda metà dell’800. Dall’altra parte però, grazie anche al sostegno di una delle economie più floride del pianeta, l’industria brassicola nipponica, a partire dalla fine dello scorso secolo, ha saputo imporsi a livello internazionale entrando stabilmente nella top ten mondiale per volumi prodotti annualmente, a poca distanza proprio da quelli della Germania.
Il mercato nipponico, ogni anno, produce cinque miliardi di litri dell’antica bevanda, mentre quello tedesco arriva a nove. Nonostante questo però, motivo per il quale i grandi produttori giapponesi puntano ancora prevalentemente sulle esportazioni, i consumi interni non sono ancora cresciuti quanto i volumi prodotti, rimanendo inferiori anche a quelli di diversi Paesi asiatici.
Secondo le statistiche riportate dal ‘World beer index 2021’ infatti in Giappone, ogni anno, si consumano 88 litri di birra pro capite, mentre, ad esempio, in Corea del Sud sono 131, in Thailandia 142 ed in Cina (primo produttore mondiale con 38 mld di litri) 127.
STORIA DELLA BIRRA NIPPONICA
Come detto, la storia della birra nipponica è relativamente giovane: la prima produzione birraria autoctona, avviata da un medico olandese (n.d.r.: come visto in numerose altre tappe del viaggio, sono sempre stati gli europei ad esportare per primi la cultura brassicola nel mondo), risale al 1853, ai tempi in cui i porti giapponesi costituivano un approdo strategico per le navi mercantili europee.
In seguito, vi sono state numerose importanti tappe che hanno contribuito alla diffusione dell’antica bevanda. Nel 1870, l’americano William Copeland, vicino a Yokohama, fondò il birrificio ‘Spring Valley’ (l’attuale Kirin): nello stesso anno gli olandesi iniziarono a importare birra in Giappone.
Due anni dopo, nel 1872, Shozaburo Shibutani sarebbe stato il primo giapponese a produrre e vendere birra aprendo un birrificio nelle vicinanze della città di Osaka: nel 1876 infine, a Sapporo, avrebbe aperto i battenti Kaitakushi, la prima azienda brassicola nipponica a gestione governativa, che in seguito avrebbe preso il nome della città dove ancora oggi è ubicata e con il quale commercializza le proprie birre.
Nel decennio successivo, per la prima volta, il quantitativo di birra prodotta nel Paese superò l’ammontare di quella importata: la fine del XIX secolo fu quindi caratterizzata dal primo periodo di prosperità del settore locale, tanto che nel 1901 il Governo introdusse la ‘Legge sulla tassa della birra’ per prevenire l’eccessiva competizione domestica, promuovere le esportazioni e concentrare il capitale.
In seguito, a partire dal 1915, il settore crebbe ancora grazie all’aumento dei consumi interni: alla crescita contribuì, fra il 1920 ed il 1933, il proibizionismo in vigore negli Stati Uniti che determinò un aumento delle importazioni di nuovi strumenti per la produzione e la fondazione di nuovi birrifici di grandi dimensioni.
Gli avvenimenti storici che coinvolsero il Giappone fra il termine del primo ed il secondo conflitto mondiale, ebbero un impatto negativo anche sulla la birra: da un lato il calo delle vendite, dall’altro l’affermarsi di pochi grandi stabilimenti che indusse i Governi a porre sotto stretto controllo la produzione e la distribuzione della bevanda.
Un nuovo sviluppo del comparto si è registrato a partire dal 1953 con la fondazione della ‘Brewers association of Japan’ che ha portato ad una rapida, ed esponenziale, crescita della domanda interna tanto che, pochi anni dopo, per la prima volta, la birra ha superato il tradizionale sakè come bevanda alcolica maggiormente consumata.
Questo ha avuto come conseguenza il fatto che, solo nel 1965, sono nati dieci nuovi birrifici ed i volumi prodotti sono raddoppiati; in questi anni inoltre hanno iniziato a consolidarsi le quattro attuali maggiori aziende del mercato nipponico: Asahi, Sapporo, Suntory e Kirin.
L’ultima data che ha cambiato il panorama brassicolo nipponico, è il 1994, anno in cui i legislatori hanno ridotto la quantità minima di produzione di birra per ottenere la licenza da 2 milioni a 60.000 litri: questo, negli anni successivi, ha portato alla nascita di numerosi piccoli birrifici regionali, dando sostanzialmente il via libera, anche nel Paese del Sol Levante, alla ‘craft beer revolution’.
Una liberalizzazione della produzione però vincolata da una precisa classificazione: in Giappone infatti, per poter essere etichettata come birra (‘bīru’), è necessario che per produrla si sia usata una miscela con almeno il 67% di malto. Il rimanente 33% può derivare da altri cereali come riso e granoturco, da patate, castagne o da qualunque altro prodotto stuzzichi la fantasia del mastro birraio.
Se il contenuto di malto è inferiore al 67%, non si può definire birra, ma ‘happoshu’ (letteralmente ‘bevanda alcolica frizzante’ o, meglio tradotto, ‘birra con poco malto’): per questo motivo molte birre europee ed americane in Giappone vengono classificate come ‘happoshu’.
Dal 2004, i birrifici possono produrre anche un altro tipo di birra, la ‘dai-san no bīru’, letteralmente ‘la terza birra’, chiamata anche ‘happousei’: si tratta di birre prodotte senza l’uso di malto che viene sostituito con altri cereali, soia, piselli e qualunque prodotto contenga amido.
Una classificazione che se, da un certo punto di vista, ha condizionato il lavoro dei piccoli birrifici, dall’altro, grazie soprattutto all’ introduzione della ‘terza birra’, che viene realizzata in prevalenza con prodotti tipici locali, ha dato vita ad un’infinità di birre: questo è il motivo per il quale torneremo a parlare del palcoscenico brassicolo nipponico.