La birra artigianale italiana piace, sempre di più, ma i produttori sono in difficoltà: sembra un paradosso, ma lo è solo in apparenza.
A fronte di consumi crescenti (più sei per cento nel 2022) mancano materie prime quali orzo e luppolo che acquistiamo soprattutto da Francia, Germania e Stati Uniti d’America.
Il settore brassicolo della penisola attualmente occupa circa 120 mila addetti, crea un valore condiviso di 9,4 miliardi di euro e versa allo Stato oltre 700 milioni in accise annue che si aggiungono alle imposte ordinarie: un settore che, senza dubbio, si sta ritagliando un ruolo sempre più importante all’interno del made in Italy.
La produzione media di orzo è inferiore al milione di tonnellate, di cui solo 110 mila destinate alla maltazione: il fabbisogno medio è invece di 208 mila tonnellate. Per questo motivo è utopistico pensare ad una birra totalmente italiana, realizzata solo con materie prime della penisola.
“Premettiamo che questa coltivazione è particolarmente onerosa: il costo oscilla fra i 30 e i 40 mila euro per ettaro e ci vogliono almeno tre anni affinché entri a regime. Perciò saremo sempre costretti ad importare del luppolo” spiega Carlo Schizzerotto, direttore del Consorzio Birra Italiana.
Bisogna considerare che, per fare un ettolitro di birra, servono fra i 16 e i 25 chilogrammi di cereali e da 1,2 a 3 chilogrammi di luppolo oltre al lievito. A questo bisogna aggiungere che, negli ultimi anni, si è registrata una flessione nella produzione della materia prima (-34 per cento) soprattutto a causa della siccità: di conseguenza, sono aumentati i prezzi, motivo per cui se nel 2019 una tonnellata di orzo costava 172 euro nel 2022 è balzata a 328 euro.
Vi è inoltre la questione legata alla concentrazione del mercato: “Nel mondo ci sono 62 mila ettari di terreni coltivati a luppolo, per buona parte negli Usa e il 90 per cento è bloccato da contratti pluriennali: “quindi i piccoli birrifici sono penalizzati” sottolinea Stefano Fancelli, presidente della rete Luppolo made in Italy.
Il rischio maggiore è che la domanda non trovi sufficiente offerta: su circa 850 birrifici artigianali, solo 200 garantiscono una filiera totalmente italiana. Marco Farchioni, fondatore di Mastri Birrai Umbri invece sottolinea: “Un altro problema è dato dal basso numero di malterie dato che richiedono investimenti importanti”.
“Oltre alla nostra (la Malteria italiana artigianale di Gualdo Cattaneo) – aggiunge infatti il dirigente – ci sono solo quella di Birra Peroni a Pomezia nel Lazio, la Monfarm nell’alto Tavoliere delle Puglie e la Agroalimentare Sud di Melfi in Basilicata”.
Ma c’è una buona notizia a tal proposito: l’azienda K-Adriatica sta per completare la più grande malteria italiana con sede a Loreo (Rovigo). Obiettivo? Produrre 50 mila tonnellate di orzo coinvolgendo agricoltori di Veneto, Friuli Venezia Giulia, Emilia-Romagna e Marche.
Si tratterà della fabbrica più grande d’Italia destinata alla produzione del malto da birra e darà lavoro a circa 100 persone fra dipendenti diretti e indiretti. Il progetto prevede che diventi operativa entro la fine del 2023 e che dia un nuovo impulso alla crescita della filiera brassicola italiana spingendola verso nuovi obiettivi.
Per questo progetto sono stati stanziati circa 25 milioni di euro, la maggior parte dei quali destinati all’acquisto degli impianti tecnologici e 2,4 milioni per lo stabilimento produttivo. Il lavoro dell’azienda sarà ampiamente automatizzato e collegato a un sistema integrato di stoccaggio.
La produzione sarà improntata alla sostenibilità e alla riduzione dell’impatto ambientale: si utilizzerà infatti solo energia da cogenerazione e verrà impiegato il 100% del calore prodotto e messa in atto una riduzione del consumo d’acqua del 35%.
Un altro problema di non secondaria importanza è quello causato dai cambiamenti climatici (siccità alla quale seguono improvvise e forti grandinate) che colpiscono in maniera sempre più impattante anche le coltivazioni di orzo e di conseguenza tutta la filiera brassicola della penisola.
“In questo scenario – affermano le associazioni di categoria – nel quale ai danni causati dal clima si uniscono quelli provocati dalla guerra sui costi dell’energia e delle materie prime è necessario sostenere i produttori con aiuti ad ettaro per le coltivazioni e con la stabilizzazione del taglio delle accise per non mettere a rischio un prodotto di alta qualità del made in Italy con effetti sulla produzione, sui posti di lavoro e sui consumi”.
Un settore che è in crescita grazie anche ad una sempre più sviluppata “cultura della birra” che si riscontra soprattutto nelle nuove generazioni per le bevande brassate che non sono né pastorizzate né microfiltrate e vengono realizzate con l’utilizzo d’ingredienti sempre più particolari grazie all’inventiva dei mastri birrai italiani.
Si passa infatti dalle aromatizzate alla canapa a quelle affumicate con le castagne, dalle birre senza glutine a quelle con riso carnaroli del Piemonte e a quelle alla zucca, dalle bevande con le arance di Sicilia a quelle con scorze di bergamotto oppure alla ciliegia e al miele di erica. Un panorama brassicolo nostrano sempre più variegato e di qualità da salvaguardare essendo diventato parte della cultura italiana.