HomeBirraGiro del mondo in birra: Stati Uniti, seconda parte

Giro del mondo in birra: Stati Uniti, seconda parte

Seconda tappa consecutiva oltreoceano per il viaggio alla scoperta di tutto quanto riguarda la birra. Come già sottolineato la scorsa settimana, il Paese a stelle e strisce rappresenta una delle più importanti realtà del panorama brassicolo mondiale, come il Belgio, la Germania, la Repubblica Ceca e la Gran Bretagna.

Proprio qui, infatti, a partire dagli anni settanta del secolo scorso, ha avuto inizio la contemporanea rivoluzione del movimento brassicolo artigianale globale, ovvero la ‘craft beer revolution’ di cui abbiamo parlato più volte: questa aveva come obiettivo quello di  far sbocciare, grazie all’inventiva dei mastri birrai, realtà locali legate al territorio e creare solo prodotti di altissimo livello sfruttando l’ampia reperibilità e ricchezza delle materie prime a disposizione.

Prima della steam beer, prima della cream ale, prima dell’ american pale ale e così via (citando gli stili più o meno conosciuti e nati in quegli anni), gli Stati Uniti però hanno dato vita ad altre tipologie proprie e originali: una gran varietà e alcune di esse davvero curiose e affascinanti.

Birre che potremmo definire come quelle dell’epoca coloniale o di quella appena antecedente ad essa: tra queste troviamo le bevande  a base di mais, molto apprezzate ad esempio dagli Apache. Questa consuetudine di utilizzare un cereale oggi associato all’industria allora aveva ragioni diverse da quelle della mera convenienza economica: per le popolazioni indigene costituiva infatti anche un’importante fonte di sostentamento.

La medesima motivazione era alla base di un altro costume peculiare della filiera brassicola dell’America settecentesca, ovvero quello d’impiegare non solo crusca (di frumento e avena), ma anche melassa facilmente reperibile grazie ai costanti rapporti commerciali con i Caraibi: questo elemento serviva ad incrementare il colore della bevanda.

Non veniva però utilizzata solo come integratore, ma anche come unico ingrediente: in questo caso, il prodotto finale veniva chiamato ‘small beer’ (da non confondere con la medesima espressione inglese, che indica la tipologia ottenuta dalla trasformazione del mosto).

Sempre nel corso del periodo coloniale, inoltre, venne prodotta una birra a base di zucca data la scarsa reperibilità dell’orzo: con il passare del tempo però la ricetta di quella che veniva chiamata Pompion Ale si sarebbe modificata grazie alla maggiore disponibilità del cereale, fino a diventare la bevanda brassicola alla zucca che conosciamo oggi, ovvero la Pumpkin Ale.

zucca e birra

Se però all’epoca il malto d’orzo era il tassello mancante, non lo era il luppolo che fu il motore della prima diversificazione del movimento birrario americano che, proprio allora, iniziò a produrre tutti quegli stili e sotto stili diventati iconici degli Stati Uniti grazie all’incessante lavoro svolto dai mastri birrai locali ed alla loro inventiva.

Dunque fu proprio il luppolo a dare il via all’elaborazione delle prime birre autoctone americane: i suoi fiori venivano utilizzati insieme ad altre materie prime tipiche quali mais, grano, avena, la crusca degli ultimi due cereali menzionati e, come visto in precedenza, la melassa.

Le ricette dell’epoca prevedevano l’impiego anche di altri ingredienti di tipo vegetale: nello Stato della Virginia, ad esempio, era particolarmente gettonato l’abete rosso (germogli o aghi a seconda della ricetta); in Carolina il pino (stessi elementi botanici); in Pennsylvania la radice di zenzero.

luppolo

Vi erano anche altre tipologie di birra: in Ohio venivano prodotte una Sour Porter e una Coriander Ale (a metà dell’’800); in Oklahoma vi era la Choc Beer (così chiamata perché sorseggiata dai pellerossa Choctaw) che, oltre a quelle intense del luppolo e dell’orzo, presentava note aromatiche di tabacco.

Cambiando Stati, si trovavano la Kentucky Common che veniva imbottigliata a fermentazione in corso e sigillata strettamente per consentirne la carbonatazione e la Pennsylvania Swankey: una birra a bassissima gradazione alcolica con sassofrasso o anice.

Dall’insieme di queste ricette, oltre alle Pumkin ale, sono nati anche tutti gli altri stili americani che oggi conosciamo, fra cui la celebre in tutto il mondo American pale ale, una tipologia della quale esistono due versioni: una diversificazione dovuta alla continua crescita di questa particolare bevanda sia in termini di produzione che di consumi.

american pale ale

Da una parte troviamo le West Coast dai colori brillanti e con un aspetto limpido, privo di opacità sensibili: il profumo è in prevalenza erbaceo e resinoso con note amare; dall’altra vi sono le North East con un bilanciamento olfattivo che propende maggiormente per il fruttato tropicale rispetto al resinoso e che concede maggiore spazio all’aroma del lievito.

Questo però è solo un esempio di come l’offerta birraria americana, che, come visto, affonda le proprie radici in un bagaglio storico-culturale di ricette e tradizioni sconfinato, continui a diversificarsi con proposte che, senza dubbio, sono sempre più originali e sorprendenti.

Basti pensare, ad esempio, alle pastry stout (delle quali abbiamo parlato in passato), ovvero le birre scure da dessert (a base di torte, gelati e derivati e caffè) che si stanno ritagliando sempre più spazio in quella che, infine, possiamo definire una vera e propria galassia brassicola a stelle e strisce.

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Nicola Prati
Nicola Prati
Classe 1981. Subito dopo la maturità classica, inizia a collaborare con la ‘Gazzetta di Parma’ (2000): una collaborazione giornalistica che durerà otto anni. Contemporaneamente, dal 2005 al 2008, fa parte dell’ufficio stampa del Gran Rugby Parma. Successivamente, fra le altre esperienze lavorative, quella nell’ufficio comunicazione interna di Cariparma Credit Agricole e nella direzione relazioni esterne del gruppo Barilla. Le sue due più grandi passioni sono tutti gli sport e la musica. A queste, si aggiungono la lettura, i viaggi e la cucina. Collabora con ApeTime da gennaio 2021.

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