Nuova tappa per il viaggio alla scoperta di tutte le birre prodotte nel mondo e delle storie e delle curiosità ad esse collegate. La scorsa settimana è stata la volta della Svezia, oggi invece il tour si trova in Svizzera, Paese nel quale, nel secolo scorso (dal 1935 al 1991).
Per quanto riguarda i prodotti brassicoli, ha avuto luogo una vicenda assai particolare: l’esistenza di un cartello della birra, ovvero di un’associazione dei produttori che omologava tutte le bevande prodotte sul territorio elvetico dando la possibilità di produrne solo quattro tipologie stilistiche, tutte di derivazione tedesca.
Nel XX secolo infatti, quella che si chiamava ‘Convenzione delle birrerie svizzere’, aveva di fatto bandito dal mercato interno il termine ‘concorrenza’: ad ogni birreria che vi aderiva veniva infatti attribuita un’area di vendita esclusiva e i prezzi erano fissi in tutto il territorio.
L’associazione, inoltre, disciplinava anche l’imbottigliamento, gli aromi ed i sapori permessi, stabiliva l’ammontare delle tassazioni che erano da concordare con gli osti e limitava fortemente la pubblicità dei singoli birrifici a vantaggio di campagne pubblicitarie collettive che esaltavano le qualità della birra prodotta a livello nazionale.
Per poter realizzare la bevanda a prezzi concorrenziali furono rimossi tutti gli elementi che avrebbero causato dei costi supplementari: i profitti erano quindi generati non dalle maggiori entrate dovute a prezzi eccessivi, bensì grazie al contenimento delle uscite.
Questa situazione, nel corso degli anni, ha comportato diverse problematiche: a causa delle aree di vendita esclusive, un’azienda intenzionata ad espandere la propria attività, per esempio, non poteva fare altro che rilevare e liquidare un marchio concorrente.
Nel 1990 questo fenomeno aveva ridotto sensibilmente il numero dei birrifici elvetici che, dai 60 censiti nel 1940, era passato a soli 32. Una situazione che si sarebbe accentuata in negativo (ma solo per un decennio) a partire dal 1991, anno nel quale il Governo stabilì lo smantellamento del cartello e la liberalizzazione del mercato birrario: passaggio che, in un secondo momento, a partire dagli anni duemila, avrebbe portato alla nascita della locale ‘craft beer revolution’.
Inizialmente infatti, la prima conseguenza dello scioglimento dell’associazione, fu la nascita e l’affermazione dei marchi elvetici più importanti, quelli che oggi dominano il mercato interno per quanto riguarda i volumi di birra prodotti annualmente: si tratta di Feldschlösschen (rilevato nel 1999 da Carlsberg) e CalandaHaldengut (acquistato da Heineken nel 1996).
Come accennato in precedenza, il cartello aveva stabilito che potessero essere prodotte esclusivamente quattro tipologie di birra, tutte di derivazione tedesca, perlopiù bavarese ed a bassa fermentazione: questa standardizzazione aveva ovviamente comportato anche la perdita della qualità delle produzioni locali precedenti.
Le bevande ammesse in quell’epoca erano la Schweizer Lager Hell con una gradazione alcolica del 4,8% che, per il suo aroma dolce, ricordava le Münchner Helles; vi era poi la Schweizer Lager Dunkel il cui colore ambrato ed il profumo di malto torrefatto replicava quello delle ‘Münchner Dunkles’.
La terza tipologia era quella delle Schweizer Lager Spezial, birre aspre e dal sapore intensamente luppolato che ricalcavano il gusto delle German pils; il quarto infine era lo stile Festbier con una gradazione alcolica del 5% il quale, per le note amare e la leggera luppolatura, andava collocato a metà strada tra quello delle Hellen Bock e quello delle lager tedesche tradizionali.
La Convenzione aveva inoltre introdotto anche una sorta di decreto sulla genuinità della birra di provenienza svizzera, una norma che, in sostanza, ricalcava il celebre editto della purezza redatto in Baviera e rimasto in vigore per secoli in tutta la Germania: il Reinheitsgebot voluto nel 1516 dal duca Guglielmo IV.
Una clausola aggiunta nel 1900 allo statuto dell’associazione infatti recitava: ‘Per birra s’intende una bevanda ricavata dalla fermentazione alcolica di mosti preparati con malto d’orzo, luppolo, lievito e acqua: i surrogati di orzo maltato e luppolo sono vietati’.
Chi aveva aderito alla Convenzione (in sostanza tutti i birrifici operativi sul territorio elvetico) non poteva dunque mettere sul mercato birre di frumento o di segale e neppure aggiungere alla bevanda altri elementi come erbe, frutta o spezie utili per migliorare e diversificare il profilo aromatico delle birre.
Un panorama che oggi, a distanza di poco più di trent’anni dallo scioglimento dell’associazione, è completamente ribaltato: la Svizzera (8,7 milioni di abitanti) attualmente infatti conta il maggior numero di birrifici attivi pro capite al mondo essendo passata dai 32 del 1991 agli oltre 900 censiti lo scorso anno.
Un dato che dimostra la grande passione degli svizzeri per i prodotti brassicoli che oggi anche qui, è possibile realizzare nuovamente qui in tutte le sue declinazioni stilistiche, esattamente come avveniva fino all’inizio del secolo scorso: una produzione che poggia su due solidi pilastri quale l’inventiva e la qualità.