Genio irascibile ma anche amabile interlocutore, grande esperto di rum e abile affarista… Potremmo continuare a lungo, nell’elencare espressioni che descrivano la poliedrica personalità di Victor Bergeron, alias Trader Vic, personaggio che ha fatto la storia della mixology.
In particolare, Trader Vic è ricordato come uno dei padri della miscelazione tiki, insieme con (o meglio, dopo) l’arcirivale Donn the Beachcomber e come l’inventore del Mai Tai. Ma anche per le colorite imprecazioni alle quali si lasciava andare quando (spesso) perdeva le staffe. Inoltre, amava dipingere a olio e realizzare sculture in bronzo (i soggetti erano per lo più donne nude e animali selvaggi), disegnare gioielli, collezionare fossili e scrivere libri. E non parliamo solo di manuali legati a cibo e drink, come la celebre “Bartender’s Guide”, ma anche libri di memorie personali e di storie per bambini.
Nato a San Francisco il 10 dicembre 1902, Victor Jules Bergeron era figlio di un cameriere e bottegaio di origini franco-canadesi. A 6 anni gli venne amputata una gamba per evitare che una tubercolosi al ginocchio, sviluppatasi dopo un incidente, si espandesse con conseguenze letali. Nel 1934 si fece prestare 800 dollari da una zia, ne aggiunse 300 di tasca sua e apri l’Hinky Dinks, il suo primo ristorante e bar a Oakland, in California, all’interno di un locale sfitto di fronte al negozio di alimentari dei genitori.
La rivalità con Donn Beach
Era un posto come tanti altri negli Stati Uniti, birra hamburger e patatine: gli affari andavano bene ma Bergeron voleva di più, puntava a diventare il numero uno in città. Così, in cerca di ispirazioni, consigli e ricette, nel 1937 partì per incontrare alcuni dei migliori bartender dell’epoca: a New Orleans conobbe Albert Martin del Bon Ton Café, quindi si recò all’Avana dal mitico Constantino Ribalaigua Vert del La Floridita, infine a Los Angeles visitò il Don the Beachcomber, primo locale tiki creato nel 1933 a Hollywood da Ernest Raymond Gantt, meglio noto come Donn Beach: un restaurant bar dalle ambientazioni polinesiane negli arredi, nel menu e nei drink – ispirate dalle esperienze di navigazione del suo fondatore nel sud del Pacifico – dove gli avventori potevano immergersi in favolose atmosfere esotiche senza spostarsi dalla città.
Affascinato dall’idea e colpito dal successo del locale, nel 1938 Bergeron creò la “Bamboo Room” all’interno del suo ristorante, arredando in stile tropicale una delle sale in cui propose una cocktail list di “autentici drink che ho riunito dai quattro angoli del mondo”, come annunciò in un’inserzione sull’Oakland Tribune. Nella quale, firmandosi “Trader Vic, your host at Hinky Dinks” (Trader Vic era il soprannome datogli dalla prima moglie, Esther, per l’abilità con cui riusciva a ottenere forniture e servizi in cambio di pasti e drink), citava Mojito, Rum Cow, Cuban Presidente, Barbadoes Red Rum Swizzle, Maui Fizz, Raffles Bar Sling, Gin and Schweppes Tonic, Champagne Apricot e Pisco Punch (foto qui sotto).
Il successo della Bamboo Room fu tale da convincerlo ben presto a estendere la cultura tiki a tutto il locale, di cui cambiò il nome in Trader Vic’s. Dando il via alla costruzione di un impero che, alla sua morte l’11 ottobre 1984, contava oltre 20 ristoranti nel mondo per un valore complessivo di 50 milioni di dollari, grazie anche a una partnership siglata con la nota catena di hotel Hilton che adottò (e adotta tuttora) il format e l’insegna Trader Vic in alcuni dei suoi migliori alberghi in tutto il globo. Attualmente ne esistono tre negli Usa (fra cui il “flagship” di Emeryville, sulla baia di San Francisco, dove si trasferì nel 1972 il locale originario di Oakland), uno in Europa (a Monaco di Baviera, mentre quello di Londra è stato vittima poco più di un anno fa della crisi post-Brexit), dieci in Medio Oriente, due in Asia e uno in Africa. In attesa delle nuove aperture annunciate, sull’onda del ritorno di popolarità dello stile tiki.
Ma torniamo a Trader Vic: più aumentava il suo successo, più cresceva l’astio da parte del rivale Donn Beach, che dovette assistere alla chiusura di molti dei locali che portavano il suo nome dopo avere ceduto all’ex moglie i diritti sul marchio per gran parte degli Stati Uniti. E proprio mentre Vic – che lui accusava di avergli rubato l’idea e anche le ricette dei drink – faceva soldi a palate. Merito delle sue capacità di marketing e di una formula certamente simile a quella del Beachcomber, ma resa ancor più commerciale e replicabile, fra piatti di ispirazione cantonese e cocktail a base di rum come Missionary Revenge, Suffering Bastard e naturalmente Mai Tai.
La causa in tribunale per il Mai Tai
Va detto che Vic riconobbe sempre di avere tratto l’ispirazione iniziale dal locale di Donn Beach, al quale tributò l’invenzione dello stile tiki. Sul Mai Tai, però, Bergeron non sentiva ragioni, quello lo aveva inventato lui nell’agosto del 1944, come raccontò nel 1972 nella sua “Bartender’s Guide Revised Edition“: “Ero al bar del mio ristorante di Oakland. Presi una bottiglia di rum invecchiato 17 anni. Era il giamaicano J. Wray Nephew, sorprendentemente dorato nel colore, di medio corpo ma dal sapore ricco e pungente tipico delle miscele giamaicane. Il sapore di questo ottimo rum non doveva essere sopraffatto da pesanti aggiunte di succhi di frutta e aromi. Presi un lime fresco, aggiunsi un po’ di orange curacao dall’Olanda, un dash di sciroppo Rock Candy e una cucchiaiata di orzata francese, per il suo sottile sapore di mandorla. Una generosa quantità di ghiaccio tritato e una vigorosa shakerata a mano produssero il matrimonio che stavo cercando. La buccia di mezzo lime diede il colore… Vi aggiunsi un ramo di menta fresca e ne servii due a Ham e Carrie Guild, amici di Tahiti, che erano lì quella notte. Carrie ne fece un sorso e disse: ‘Maita’i, roa ae‘. In tahitiano significa ‘Fuori dal mondo, il migliore’. Bene, questo è tutto. Chiamai il drink Mai Tai”. E più avanti concluse, alla sua maniera: “Chiunque sostenga che io non ho creato questo drink è una sporca carogna“.
Il riferimento era proprio a Donn Beach, il quale a un certo punto iniziò a lamentare che Vic avesse copiato da lui anche il Mai Tai. La sua ultima moglie, Pheobe Beach, ancora nei primi anni 2000 sostenne in un libro che un drink dal nome Mai Tai Swizzle sarebbe stato inventato dal marito nel 1933 nel suo locale di Los Angeles. Tuttavia, come attestano le ricerche di Jeff “Beachbum” Berry, oggi il maggiore esperto mondiale di tiki, in nessun menu del Don the Beachcomber vi è traccia di questo drink prima degli anni ’50. E la ricetta, in ogni caso, è piuttosto diversa, più complessa e, in generale, molto meno amata dagli appassionati.
Del resto, sulla questione si era già pronunciato chiaramente un giudice dopo che, nel 1970, Bergeron aveva trascinato in tribunale Beach, il quale aveva messo in commercio un Mai Tai mix in bottiglia praticamente uguale a quello venduto nei ristoranti Trader Vic, affermando sull’etichetta di essere l’inventore del cocktail. La sentenza fu favorevole a Vic. Che nel 1976, in “Helluva man’s cookbook“, ribadì (sempre fedele al suo stile): “Abbiamo inventato questo drink; abbiamo preparato il primo Mai Tai: abbiamo dato il nome al drink. Un sacco di bastardi in tutto il paese lo hanno copiato e registrato e rivendicato per sè. Spero che si prendano un colpo. Sono una masnada di schifosi bastardi per aver copiato il mio drink”.
Non solo locali tiki
Da abile commerciante, Trader Vic avviò anche imprese di distribuzione di cibi e bevande: ebbe un ruolo importante nella diffusione del rum sul mercato americano, grazie alla quale negli anni questo distillato si è fatto sempre più raffinato e si sono moltiplicate le produzioni di alta qualità. Oltre al Mai Tai, nella sua carriera inventò altri cocktail oggi più o meno noti (come l’Aku Aku o lo Scorpion), non tutti a base di rum.
Sempre nel 1972, pur mantenendo la presidenza, lasciò ai figli (ne ebbe quattro, tutti dalla seconda moglie Helen) la gestione della compagnia a cui facevano capo i ristoranti (che quest’anno festeggia i 90 anni ed è tutt’ora controllata dai suoi nipoti). Ebbe così modo di dedicare più tempo alle altre sue passioni e, dopo la già citata nuova edizione della “Bartender’s Guide” (quella originaria l’aveva pubblicata nel 1947), nel 1973 diede alle stampe la sua autobiografia “Frankly speaking: Trader Vic’s own story”. Ma la sua produzione letteraria include diversi altri libri sui cocktail, sul tiki, sulla cucina delle isole del Pacifico e su quella messicana… oltre a “The Menehunes“, un testo illustrato sui bambini delle Hawaii.
A ricordare la gamba amputata quando era bambino a causa della tubercolosi (anche se lui, per alimentare la leggenda, era solito raccontare che gliela avesse mangiata uno squalo), solo l’andatura un po’ claudicante. Oltre all’impegno dedicato per tutta la vita per il miglioramento dei programmi di riabilitazione in California per le persone che avevano perso uno o più arti, a partire dai veterani di guerra.
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