HomeBirraGiro del mondo in birra: Norvegia e la sua tradizione plurisecolare

Giro del mondo in birra: Norvegia e la sua tradizione plurisecolare

Quarta tappa consecutiva in un continente diverso per il viaggio alla scoperta dei prodotti brassicoli realizzati in ogni angolo del pianeta, delle storie legate al mondo della birra e al suo sviluppo. Andiamo in Norvegia, una terra che vanta una tradizione plurisecolare in tema di birra.

La scorsa settimana il tour era in Nigeria dove, da secoli, viene realizzata la bevanda tradizionale, a base di sorgo, conosciuta con il nome di ‘otika’, mentre, nelle puntate precedenti, era approdato in Nicaragua e in Nepal.

Questa settimana, l’esplorazione del panorama birrario mondiale torna in Europa per approdare in Norvegia, terra che vanta una tradizione plurisecolare in tema di birra: questa infatti, come noto, era la patria dei Vichinghi (vissuti fra il 793 ed il 1066), una delle popolazioni della storia presso la quale la bevanda ha rivestito un ruolo culturale di maggiore importanza, soprattutto per quanto riguardava i guerrieri.

guerriero Norvegia

Veniva infatti considerata una vera e propria bevanda sacra ed un alimento centrale nella vita di tutti i giorni per le sue proprietà nutrizionali: in modo particolare era fondamentale per i combattenti in procinto di partire per i loro celebri viaggi via mare (sarebbero arrivati fino alle Americhe) dato che, grazie alla fermentazione, intesa come purificazione, si riteneva trasmettesse energia vitale.

Proprio per questo motivo, durante le lunghe traversate, portavano sempre con loro delle botti di birra: con ogni probabilità, come riportato da diversi studiosi, si trattava di versioni con un’elevata gradazione alcolica che consentiva alla bevanda di non deperire rapidamente dal punto di vista qualitativo nel corso dei viaggi.

L’antica bevanda però non rivestiva un ruolo centrale nella cultura vichinga solo in occasione delle esplorazioni: essa infatti era fondamentale anche nel corso di diverse cerimonie, in primis quelle funebri dato che la birra funeraria faceva parte di un vero e proprio rito (chiamato ‘Sjaund’), scandito da una serie di bevute in onore del defunto, che si svolgeva sette giorni dopo la sua morte.

Con ogni probabilità, proprio per differenziare le finalità di utilizzo, ne esistevano due versioni: quella a bassa gradazione alcolica destinata alle celebrazioni sacre, conosciuta con il nome di ‘mungat’, e quella più ‘forte’ che veniva preparata per i combattenti e i viaggiatori e veniva chiamata “Bjorr” o “Oi” (da questi termini, con ogni probabilità, secondo gli studiosi, sono derivati quelli anglosassoni ‘beer’ e ‘ale’).

La centralità culturale della bevanda presso i vichinghi non avrebbe non potuto influenzare chi avrebbe abitato questo vasto territorio dopo di loro e, proprio per questo motivo, in Norvegia, fino a due secoli fa, nessuna fattoria poteva essere definita tale senza un ‘brygghus’, ovvero un birrificio casalingo.

Qui la bevanda, prodotta in piccole quantità, veniva realizzata con malto d’orzo, frumento, avena o segale a seconda del cereale coltivato localmente: a questo venivano aggiunti, oltre ovviamente all’acqua, linfa di betulla, luppolo, miele o zucchero, lievito e rametti interi di ginepro.

La fermentazione veniva effettuata in vasche di legno (chiamate ‘trekar’) che erano dotate di un rubinetto nella parte inferiore il quale consentiva di depositare gli strati dei vari componenti: questa era la fase più delicata e importante del procedimento dato che il liquido, per poter fluire, non doveva essere troppo denso ma, al tempo stesso, non dovevano essere dispersi gli ingredienti che avrebbero determinato il profilo aromatico della bevanda.

Ciascuna famiglia aveva una propria ricetta che faceva in modo che la birra fosse più o meno alcolica e variasse di aspetto: in linea generale però si trattava quasi sempre di bevande dal sapore decisamente affumicato, amarognolo, fruttato e con sentori di ginepro.

birra in lattina

Questa metodologia di produzione sarebbe andata lentamente in disuso a partire dall’inizio del XX secolo quando il panorama birrario norvegese avrebbe conosciuto una progressiva e costante industrializzazione con la nascita di realtà produttive di tutte le dimensioni, anche artigianali, che, prendendo spunto dalle plurisecolari tradizioni, avrebbero radicato anche in Norvegia la moderna ‘craft beer revolution’, ovvero la realizzazione di birre mediante l’utilizzo di materie prime locali.

In tal senso, una notevole accelerazione si è registrata a partire dagli anni novanta del secolo scorso: questo ha fatto in modo che oggi, sul territorio norvegese, si contino ben 188 birrifici artigianali, un numero davvero molto elevato considerando che la popolazione del Paese ammonta a 5,4 milioni di abitanti.

Non solo quantità, ma anche, e soprattutto, qualità, come dimostra il fatto che diverse di queste produzioni hanno raccolto importanti premi anche a livello internazionale: fra i tanti citiamo l’ ‘Aegir’ (come il dio del mare e maestro birraio della mitologia norrena) uno dei più rinomati di tutto il Paese.

Un panorama brassicolo sempre più variegato quindi che propone quasi tutti gli stili brassicoli: in modo particolare amber e brown ale, sour/wild Ale, barley Wine, stout,  Porter e Ipa. I mastri birrai norvegesi  inoltre ripropongono antiche bevande come quelle che prevedono l’utilizzo di botaniche quali i ramoscelli di ontano, di angelica e le bacche di Ginepro.

Grazie al mix composto dalle tradizionali ricette plurisecolari e dall’odierna varietà e qualità dei prodotti, si può quindi sottolineare come oggi la Norvegia rappresenti una delle realtà più affascinanti nell’ambito dell’immenso panorama brassicolo artigianale mondiale.

birra Frydenlund Bayer

(n.d.r.: la scorsa estate, nel corso di un bel viaggio in terra norvegese, in un paio di occasioni, ho avuto modo di testare la qualità della produzione brassicola locale: in modo particolare ricordo come una piacevole scoperta la Frydenlund Bayer, una birra ambrata realizzata, come si evince dal nome, nel solco di una delle diverse tradizioni bavaresi. Provata alla spina in un grazioso pub della cittadina di Alesund (il ‘Dirty nelly’), che quella sera ci regalò uno spettacolare tramonto sul mar di Norvegia, si fa apprezzare per le note maltate e caramellate che, nel finale, lasciano spazio a quelle amare del luppolo. Altrettanto apprezzabile risultò l’india pale ale proposta dalla casa e scelta dalla gradevole, e competente compagnia in materia, di quella sera: ulteriore dimostrazione del buon lavoro che svolgono i mastri birrai norvegesi).

QUI LE ALTRE TAPPE DEL NOSTRO TOUR BRASSICOLO 

Nicola Prati
Classe 1981. Subito dopo la maturità classica, inizia a collaborare con la ‘Gazzetta di Parma’ (2000): una collaborazione giornalistica che durerà otto anni. Contemporaneamente, dal 2005 al 2008, fa parte dell’ufficio stampa del Gran Rugby Parma. Successivamente, fra le altre esperienze lavorative, quella nell’ufficio comunicazione interna di Cariparma Credit Agricole e nella direzione relazioni esterne del gruppo Barilla. Le sue due più grandi passioni sono tutti gli sport e la musica. A queste, si aggiungono la lettura, i viaggi e la cucina. Collabora con ApeTime da gennaio 2021.

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