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Storia e crisi della birra trappista

Le birre trappiste: storia di una tipologia brassicola che sta attraversando una crisi forse irreversibile.

Anche chi non è un appassionato dell’antica bevanda, sicuramente, avrà sentito nominare le birre trappiste: ma cosa s’intende con questa definizione? Prima di tutto è doveroso sottolineare  che non è del tutto corretto parlare di uno stile e delle sue diverse interpretazioni, ma, più propriamente, di un disciplinare.

Vi sono infatti tre requisiti che una bevanda brassata deve avere per potersi fregiare del titolo di birra trappista e dunque del logo esagonale “Authentic Trappist Product” che è stato introdotto nel 1997 con il compito di tutelare gli autentici prodotti trappisti, ovvero quelli realizzati esclusivamente dai monaci cistercensi:

  1. la birra deve essere prodotta all’interno di un’abbazia.
  2. l’intero processo produttivo deve svolgersi sotto il controllo diretto della comunità monastica
  3. i ricavi delle vendite devono essere utilizzati dall’Ordine esclusivamente per degli atti caritatevoli

Con il termine trappisti s’intendono esclusivamente i monaci affiliati all’Ordine Cistercense della Stretta Osservanza: il fondatore si chiamava Armand-Jean le Bouthillier de Rancè (nato a Parigi il 9 Gennaio 1626 e morto a Soligny – La Trappe il 27 ottobre 1700) il quale, ritiratosi in Normandia nel convento di Notre-Dame de la Trappe, diede vita ad un’importante opera riformatrice all’interno dell’Ordine.

Nel 1664 infatti, una volta divenuto abate, ritenendo troppo liberali i comportamenti dei monaci, decise di ristabilire le osservanze tradizionali: astinenza, lavoro nei campi, clausura, silenzio e veglie, ponendo l’accento soprattutto sulla mortificazione e sull’ascesi.

monaci, birra trappista

L’Ordine così riformato prese il nome di Cistercensi della Stretta Osservanza, in contrapposizione a quella che era stata la Comune Osservanza: dal nome dell’Abbazia da cui partì la riforma,” La Trappe”, deriva poi quello con cui sono oggi noti gli appartenenti all’Ordine, ovvero frati trappisti.

Con la scomparsa del fondatore dell’ordine e lo scorrere del tempo, le regole piuttosto rigide seguite dai frati, come quella che, per due giorni alla settimana, imponeva di digiunare e bere soltanto acqua, furono ammorbidite permettendo ai monaci vincolati alla “stretta osservanza”, fra le altre cose, di produrre la birra trappista che, in seguito, sarebbe stata apprezzata in tutto il mondo.

Per quanto riguarda le qualità organolettiche della bevanda abbiamo visto come non vi siano gli elementi per tracciare un profilo sensoriale comune ben definito, che abbracci e identifichi tutte le birre in questione: questo anche per il fatto che, nel corso dei secoli, l’offerta è cresciuta sia dal punto di vista quantitativo che, soprattutto, qualitativo.

Esistono tuttavia tratti produttivi e sensoriali ricorrenti e, di conseguenza, vi sono alcune categorie di classificazione tipologica nelle quali è possibile inquadrare molte delle etichette di questa specifica bevanda: si tratta di tre stili assai rinomati quali Dubbel, Tripel e Quadrupel.

Ma quanti e quali sono i monasteri trappisti oggi nel mondo? Il numero, cresciuto rapidamente nei secoli scorsi, nel 2019 è sceso a quota 12 per poi assestarsi a 10: questo a causa dell’uscita di scena dello storico birrificio Achel, che nel gennaio 2022 ha perso il suo diritto all’utilizzo del logo per assenza di monaci nel monastero e dello statunitense Spencer che ha chiuso i battenti lo scorso anno anche a causa di gravi problemi economici che non hanno consentito di portare avanti il progetto.

Due chiusure arrivate a pochi mesi di distanza l’una dall’altra che hanno fatto emergere in tutta la sua gravità la profonda crisi che sta investendo ormai da diversi anni questa produzione brassicola mettendone a repentaglio l’esistenza in futuro: la causa principale di questa situazione è l’ assenza di un ricambio generazionale nelle comunità monastiche.

birra trappista

Rispetto al passato, infatti, i giovani non sono più interessati a entrare negli ordini religiosi (non solo monaci, ma, come noto, vi sono  anche sempre meno vocazioni in generale), con tutte le conseguenze che si possono facilmente immaginare anche per quanto riguarda la birra trappista.

Le comunità che vivono all’interno dei monasteri stanno invecchiando ed evidentemente lo stanno facendo tutte insieme: perdere in pochi mesi due marchi  su dodici è più di un semplice campanello d’allarme, è il segnale tangibile di un grave problema che mette a rischio una tradizione plurisecolare.

Questo limite, curiosamente e paradossalmente, emerge in un momento storico nel quale questa particolare bevanda stava mostrando una vivacità senza precedenti: dopo essere rimasta praticamente identica a sé stessa per secoli, improvvisamente, si era distinta per il lancio di birre inedite, collaborazioni e novità commerciali. Una vera e propria ‘craft beer revolution’ monastica molto apprezzata soprattutto dagli appassionati europei.

Tutti sforzi importanti, messi in campo con l’obiettivo di rinnovare la propria immagine ed adattarsi ai cambiamenti del mercato birrario internazionale: iniziative che però rischiano di essere vane di fronte ad un ostacolo ben più impattante e per il quale non sembrano esistere soluzioni se non affidare la produzione a dei mastri birrai laici.

Un’operazione che però, senza dubbio, farebbe perdere quell’alone mistico che ha sempre contraddistinto questi prodotti brassicoli nel corso dei secoli facendoli diventare uguali ad una qualunque birra realizzata nel mondo: questo anche lasciando da parte tutte le non poche discussioni relative al logo esagonale “Authentic Trappist Product” che nascerebbero spontaneamente in questo caso.

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